Là”Già«Dà È già “EVENTö”»lì Lì aleggia Lì
Già C’è è C’è al di là è Lì al di là Lì In Sé Radurapsodìx Là è “EVENTöntopologico dell’essere là è già C’è Rapsodyx È già“là” creatric“EVENTö”Lì della radurità In sé “EVENTö”«là» È lì Al di là dal nulla già in sé.“EVENTö”della physix che mondeggia ontostoria dell’Esser“EVENTö”
della ontostoria dell’Essere Già la fine della metafisica.
L’“EVENTö”ontostoria mondeggia abissal“EVENTö” nel nulla del nihilx dell’Essere là’esserci È iN sé ontostoria dell’esser“EVENTö” l’oltremetafisica Senzaperché della ontostoria che mondeggia ontotempora–metastabilità dell’Essere
lì c’è spaziontopolOgia ontostoricità dell’esser“EVENTö”dell’essere Katà“EVENTö”Già esserci ontostoria dell’essere già “EVENTö”dall’Essere ontostoricità è l’Esserne della ontostoria dell’Essere Là ontologica è l’Esserci dello spaziontotempora dell’Essere In sé è l’EssernE paradigma dell’esser“EVENTö””c’è nulla
senzaPerché ««Già dell’Essere già“EVENTö”». Già ontostoria-ontologica della RadurApsody––è esserci L’ontostoricoNtOtempora pensa l’Essere al di là quale ontostorico “EVENTö” senzaPErCHé già ontomodern-dell’essere già L’“EVENTö”della creatività In“Sé»»eventontosofiax senzaperché”Nullaratiousiax già dall’“EVENTö”»là ontotempora dell’essere––là pensant“EVENTö” dall’esserne»abissal“EVENTö”dell’esserci’“EVENTö”dell’essere–«vuoto in Sé»tramonto della metafisica. Meta“EVENTö”Perché«pensiero»tramonto dalla metafisica È pensiero dall’esser“EVENTö”«pensierontotempora» Senzaperché è l’’«essereontostorico»là: è là RadurApsodyx spaziontoteporadell’essere––– «ontostorico»già“Essere”nihilx Radurapsodyx dell’essere già«là»l’evento d’exstasyx
Al di là
L’“È”–EreigniStory tramontanza-della-metafisica È eventramontanza della metafisica’ultima. Già Esserontotempora del tramonto metafisico È’esserci già “EVENTö”dell’essereventramontanza della metafisica-ontoteologiCa–già«al di là»della«metafisica» crea dal
nulla«rapsodyx» È senzaperché là già aleggia radura dell’essere dal nulla dell’esser“EVENTöntoTempora “EVENTraMontanza della metafisica vi è sènzaperché dal nulla TraMontanza dellla metafisica è phýsix“EVENTraMontanza poíesix“EVENTraMontanza nel «pensiero della creazione». L’“EVENTraMontanza crea crea-“EVENTraMontanza della metafisica crea il crear’Esser“EVENTraMontanza della Metafisica ontophýsix è “EVENTraMontanza della metafisica Esser“EVENTraMontanza Della metafisica si dà dal nulla è senzaperché là è senza fondamento senzaperché
l’Esser“EVENTraMontanza della Metafisica è “EVENTraMontanza della metafisica della
makinaouxiax è ontostoria ““EVENTO”dell’Essere–– è L’““EVENTO”dell’Essere È là vuoto senzaperché ““EVENTOntologicontostoria dell’Essere già è «già abissaL““EVENTO”creativo dell’Essere senzaPerché “EVENTO”dell’Essere«là»ontostorico l’evento dell’al di là«è in sé»là è abissal“EVENTO”vuotonullo spaziontotempora dell’essere là già È si dà senzaPerché dall’evento dell’Essere RadUrapsoDyx È Radura già Là Radurapsodia dell’essere’ontoStoria“Senzaperché tramontanza della metafisica del nulla. Là è nulla«Dall’“EVENTO”Là dall’’esser“EVENTO”della ontostoria al di là della Metafisica” già Là’Essere Oltresser“EVENTO”–senzaperché già Senza la verità–MeTafiSica crea«ontostoria–dal nulla senzaPerché RadURa dell’Esser“EVENTramOntanza della metafisica». RaduRabissale dell’essere È “EVENTO Radurapsodiabissale nella ontostoria mondeggia” È “EVENTramOntanza della metafisicabixalex.
«“RadurapsodiabiSsal“EVENTramOntanzabixalex della metafisicAbixalex è già Radurabissale”. L’“EVENTO In sé tramontanzabixalex metafisicabixalex”è Physixabixalessersi Dà evento“RaduRabissal’“EVENTO”dell’essere dà là»» in sé senzaperché D’’esser“EVENTO creatrix tramoNtanzabixalex della metafisicabixalex»là»»”già»là«“EVENTOdell’esserci»«gettanzabixalex»Esser“EVENTO è’esserci ontostorico»l’esserci è gettanzabissalontostorica è gettanzabiSsale essere«già’’esserci»in sé che fonda Kata“EVENTÜX»ontologico»dell’essere tramontanzabixalex della Metafisicabissale”.
È già””––”””» crea”»””D’ESserKata“EVENTÜX»È–CrEaTrix “EVENTÜXdell’essere””senzaperché»
Là”nullabixalE là “EVENTÜX dell’essere”dell’esserne abixalex”–»È»«gettanzabixalex»essersi ad esser“EVENTÜXdell’essere”è Già’aldilà”È tranxsonazabixalex:là dell’essere ««RaDuRabixalexdell’essere esserne»’oltremetàfisiCabissale». Filogosofiabixalex«oltre la Metafisicabissale è “EVENTÜXdell’essere” Al di là«Del nullabiSsale nullabissal’“EVENTÜX dell’essere Deabixalex già interevento È“Essere ontotemporabissale–––“fenoumenologiabixalex”–creatrixabixalex creerà L’“EVENTÜX dell’essere Esserne Radurabissale’è tramontanzabixalex della metafisicabissale al di là già––l’esserci epifenoumenalità DeAbixal’“EVENTÜX dell’essere esserci dell’essere Crea “EVENTÜXdell’essere è senzaperché l’essere in sé’già ontologiabixalex è alétheiabixalex svelatezzabixalex dell’essere tramontanzabixalex della metafisicabiSsale. Radur“EVENTÜX«in sé’»già là PletonRapsodyX È già “EVENTÜXdell’essere kata“EVENTÜX”–dell’essere oltre la metafisicabissale quale fondazione della
verità dell’Essere. “EVENTÜX”–della tramontanzabixalex della metafisicabissale in sé si dà l’Esser“EVENTÜX”senza la metafisica consente la fondazione
della verità dell’Esser“EVENTÜX”d’al di là È l’essere oltre il pensare metafisico È senzaperché dell’EsserEVENTÜX”ontopologiabiSsale già nihil’EVENTÜX”dell’essere»»»’EVENTÜX”»’abissale ontopologico»’’EVENTÜX”»»»» «tranxsonanzabixalex dell’ “’EVENTÜX””senzaPerché Ontopologià–«dell’essere lì là»»»».«È “’EVENTÜX””»là Lì è«creatività»–gettanzabixalex–dell’essere già KataEVENTÜX””.
Già catastrof’EVENTÜX””senzaperché caosmox’abixal’essere senza metafisica è l’essere la verità dell’essere“oltre”È
nihil“’EVENTÜX””«Oltre»nihil’EVENTÜX”al di là della Metafisica là oNtotemporabixalex«oltre»al di là nihilEVENTÜX è già«oltre»la metafisica’oblio dell’essere là dell’esserne dell’esserci. RadÜra nella ontostoria dell’essere
È’EVENTopologiabixalex––ontostoria
dell’Essere ontopologiabiSSale Al di là già già Là’EVENTÜX”dell’essere già” è senzaperché””Essere’per la morte» in sé è’EVENTÜX”–Già In sé ontopologiabisSale dell’essere: PletonRapsoD’EVENTÜX–senzaperché Deabixalex senza metafisica–«essere-per-la-morte’ è esser’EVENTÜX per la morte. EVENTÜXdell’essere ontostoria È’EVENTÜXesseregià d’EssernÈ’EVENTÜX”È’oltre in sé là AL«di»Là»dellaMeTafiSica. Oltresser’EVENTÜX”è indicibilesserci senzaperché al di là del–perché d’esserEVENTÜX”–d’esserneGià nihil’EVENTÜX in sé Katà’EVENTÜX”In Sé è già dell’essere Già Oltre LA MeTafisiCA.“RadurabiSSAlEdell’essere SEnza metafisicA In Sé”Oltressere senzaperché RadurApsodiAbissal«esserne»’essere-nel-mondontostorico esserci.
L’’«essere ontostorica là D’’EVENTÜX”senzaperché tramotanza della metafisica È Già soggiornabixalexontostorico oltresserne
dà soggiorna impensatabissale esserci c’è’arché È senzaPerché crea dà luogo al soggiornare è il luogo dell’Ereignis,
dell’evento in cui si dà la ontostoria ““’EVENTÜX””’ultimo, il suo carattere totalitario,
che non dipende, «come credono animi ingenui, dal
casuale arbitrio di dittatori» – e l’allusione a Schmitt non
è neppure troppo velata – ma è «fondata sull’essenza
della metafisica».373
Mettere in questione l’originaria dicotomia amiconemico
non vuol dire tuttavia negare il pólemos, che Heidegger
traduce spesso con Kampf, lotta, né vuol dire contestare
l’esistenza del nemico.374 Sebbene Feind non sia
un termine chiave del vocabolario filosofico di Heidegger,
e non ricorra che di rado nella sua opera, tuttavia si
presenta in alcuni passaggi strategici degli scritti risalenti
agli anni trenta, in particolare nei Quaderni neri.
Chi è allora il “nemico” per Heidegger? Forse bisognerebbe
chiedere che cos’è il nemico? Oppure sarebbe più
corretto riprendere la domanda del seminario su Hegel:
«su che base qualcuno diventa ed è nemico»?
La risposta di Heidegger è ambivalente, muta nel corso
degli anni, dal 1933 al 1941, e si sviluppa in un rapporto
la questione dell’essere e la questione ebraica 181
non esplicito, eppure evidente, con Schmitt, di cui si
avverte l’influsso all’inizio e che, in seguito, viene preso
di mira. Altrettanto chiaro è che il nemico, inteso come
hostis, il nemico pubblico, è l’ebreo, sebbene Heidegger,
a differenza di Schmitt, si guardi dal porre accanto a
Feind l’identificativo Jude.
Nelle lezioni del 1933, che sono state pubblicate con il
titolo Sein und Wahrheit (Essere e verità), Heidegger
sostiene che il nemico è colui dal quale proviene una
«minaccia essenziale» all’esistenza del popolo. «Non
occorre che il nemico sia esterno, e non sempre quello
esterno è il più pericoloso».375 Proprio quando sembra
non essercene alcuno, è indispensabile «trovare il
nemico, metterlo in luce». Oltre all’esigenza esistenziale
– evitare, cioè, che l’esserci si intorpidisca – emerge la
necessità politica. E dunque Heidegger afferma:
Il nemico può essersi insediato nella radice più intima dell’esserci di
un popolo, contrastarne e pregiudicarne l’essenza propria. Tanto più
accanita, dura e difficile è la lotta, perché solo in minima parte consiste
nel combattimento aperto; spesso è ben più impegnativo e faticoso
tener d’occhio il nemico, far sì che si sfoghi, non farsi avanti,
tenersi pronti all’attacco, curare e rafforzare la continua prontezza e
disporre l’attacco a lungo termine con il fine del completo annientamento.
376
L’immagine del nemico interno, che intacca l’essenza
del popolo, non può non ricordare Schmitt.377 Si
dovrebbe dunque pensare che Heidegger lo segua in
modo pedissequo nell’identificazione di quel nemico
ontologico e politico che è evidentemente l’Ebreo.
Qualche anno più tardi, però, nei Quaderni neri, il
nemico diventa il tema di una domanda che riprende
quella formulata nel seminario su Hegel e, anzi, la corregge.
«Dove sta il nemico e come viene creato? Dov’è
diretto l’attacco? Con quali armi?».378 Heidegger si interroga
sulla linea del fronte.379 Sebbene metta l’accento sul
Kampf für das Wesen, la «lotta per l’essenza», che i tede-
182 capitolo terzo
schi devono combattere, contesta chi, oltre a indicare
nell’avversario immediatamente un nemico, fa del
nemico il «diavolo», lo demonizza, e in tal modo elimina
non solo il carattere creativo della conflittualità, ma
rende impossibile la stessa lotta per l’essenza.380
Non è difficile indovinare contro chi sia rivolta la critica
di Heidegger che sottolinea due pericoli: quello di
«assolutizzare il “politico”» oppure di «installarlo in un
cristianesimo apparentemente nuovo».381 Ma la critica è
ancora più netta quando viene preso di mira il «cattolicesimo
politico» a cui è subentrata la «politica “cattolica”»,
cioè – riconducendo etimologicamente “cattolico” a
kathólou, in tutto – quella politica che, per la sua velleità
di dominare, può dirsi «totale». Come Schmitt aveva
usato un aggettivo, il “politico”, così Heidegger parla sarcasticamente
del “cattolico”, la cui essenza non sta nel
cristianesimo; ha assunto per la prima volta forma nel
«gesuitismo» e si è andato costituendo nel «contro…», a
cominciare dalla Controriforma. Il «cattolico» è
«romano – spagnolo; completamente non-nordico, del
tutto non-tedesco».382 Se Schmitt gli rimprovererà una
escatologia ateologica e deteologizzata, Heidegger a sua
volta ne denuncia la dogmatica cattolica del nemico.
Ogni dogmatismo, politico-clericale o politico-statale, intende necessariamente
qualsiasi pensare e agire che sia, in apparenza o in realtà,
divergente, come un consenso a ciò che ad esso, al dogmatismo, è
nemico – pagani e senzadio, ebrei e comunisti. In questo modo di
pensare è insita una forza peculiare – non del pensiero – ma dell’imporsi
di quel che è proclamato.383
E mentre la guerra diventa totale, Heidegger guarda
sempre più al pólemos. Qual è allora la differenza tra
guerra e lotta, tra Krieg e Kampf, e quale distanza si profila
rispetto a Schmitt? Come aveva inaugurato il loro
confronto, così il pólemos lo chiude. Heidegger rovescia il
rapporto: è il pólemos il presupposto del nemico, non
viceversa.384 Per Schmitt, a partire dal nemico si apre l’ola
questione dell’essere e la questione ebraica 183
stilità, che permea e permette il “politico”, un’ostilità di
cui la guerra è la realizzazione estrema. Se Clausewitz
aveva detto che «la guerra non è che la continuazione
della politica con altri mezzi», Schmitt sostiene che è la
guerra «il presupposto della politica».385 In tal modo si
delinea una continuità tra nemico-lotta-guerra che costituisce
l’asse politico del suo pensiero.
Per Heidegger sussiste, al contrario, discontinuità tra
lotta e guerra. E, anzi, dove si impone la guerra, e l’avversario
sul fronte si erge a nemico, il pólemos si irrigidisce
e perde la sua profondità ontostorica. Perciò Heidegger
non condivide il modo in cui Schmitt vede la guerra.
E come Feind, nemico, non è un termine chiave del suo
vocabolario, così non lo è neppure Krieg, guerra. Questo
non gli impedisce di riflettere sulla forma ultima assunta
dalla guerra mentre, alla fine degli anni trenta, la Germania
già avanza a tappe forzate verso la catastrofe.
La guerra non è, come Clausewitz pensa ancora, la continuazione
della politica con altri mezzi; se “guerra” si riferisce alla “guerra
totale”, cioè a quella che, come tale, scaturisce dalla svincolata macchinazione
dell’ente, allora la guerra diviene trasformazione della
politica […]. Tale guerra non prosegue qualcosa che già sussiste,
bensì lo costringe a eseguire decisioni essenziali che, a sua volta, non
padroneggia. Perciò questa guerra non ammette più «vincitori» e
«vinti»; tutti diventano schiavi della storia dell’Essere.386
La guerra rivela la sottomissione della politica al potere,
ne fa affiorare l’uso strumentale. Il carattere «totale»
deriva dall’abbandono dell’essere. Non c’è più differenza
tra guerra e pace – a meno di non confondere quest’ultima
con un armistizio temporaneo. Da quando la guerra è
divenuta mondo, e il mondo è divenuto guerra, non c’è
più posto per la pace.387Ma non c’è più spazio neppure per
il nemico – e forse per l’amico – e per tutte quelle distinzioni
pure che Schmitt si intestardisce a conservare.388
Se non c’è più opposizione tra guerra e pace, resta
allora una opposizione, rimane una via d’uscita e di
184 capitolo terzo
scampo dalla «totalità» della guerra? In uno schema che
Heidegger propone nei Quaderni neri, mentre la guerra e
la pace scivolano nel mezzo, agli estremi si collocano il
pólemos e la decisione.389
Più volte Heidegger, già a partire da Essere e tempo, è
tornato sul pólemos che traduce in genere con Kampf,
lotta, ma anche con Streit, contrasto, e con Auseinandersetzung,
confronto. Per comprendere il significato di
Kampf, questo termine chiave del suo vocabolario filosofico,
occorre considerare il frammento 53 di Eraclito, la
cornice entro cui Heidegger lo pensa: «pólemos è padre di
tutte le cose, di tutte re; gli uni disvela come dei e gli altri
come uomini, gli uni rende schiavi, gli altri liberi». Il dissenso
non dissocia, il conflitto mantiene e raccoglie – è
raccoglimento. Di qui il nesso tra pólemos e lógos.390 Se
nella riflessione di Schmitt è un concetto torbido, in Heidegger
è chiaro che il pólemos non è armato. Attiene
all’interrogazione e perciò all’erotico contendere dei filosofi.
Ma il suo significato è ampio e pervade la comunità.
«Ogni comunità porta con sé, nel suo orecchio, la voce
dell’avversario una sorta di resistenza interna».391 Il
nemico ridiventa avversario, e l’avversario si ritrae quasi
nel richiamo della coscienza, la voce dell’altro che parla
nel sé. Lo scarto rispetto a Schmitt è «irriducibile» – sottolinea
Derrida.392 Perché in effetti Schmitt rivendica il
pólemos al discorso sulla guerra. Non così Heidegger, che
non dimentica le parole di Eraclito: pólemos è patèr,
padre, generatore, ed è pânton basileús, il «sovrano di
ogni ente»; ma basileús, che non significa semplicemente
«re», è il waltender Bewahrer, il custode che dominando
lascia essere nella Aus-ein-ander-setzung, in quel confronto
che è un dispiegarsi l’uno grazie all’altro. Il pólemos
è il custode che regna e regnando custodisce l’Essere.
Nella «lotta “spirituale”» non ne va del Sieg, della vittoria.
393 Ci sono combattenti, Kämpfer, che hanno sempre
bisogno di un avversario, anzi di un nemico; «se manca,
la questione dell’essere e la questione ebraica 185
lo inventano», perché altrimenti non sembrano avere più
scopo. Così combattono sempre per il nemico, rendendosene
dipendenti. Ci sono invece combattenti che lottano
per il loro fine e la cui somma battaglia, quella per le decisioni
essenziali, non è volta al «possesso e al successo, al
potere e al piacere», bensì all’«inizio della storia dell’essere
».394
Essere-vincitori – non significa solo uscire vittoriosi da una battaglia;
il vincitore potrebbe essere anche chi ha avuto la peggio perché si è
votato esclusivamente all’obiettivo e alla tattica del nemico, e ancor
più lo farà nel futuro. Essere vincitori vuol dire imprimere alla lotta il
fine proprio e più elevato.395
Non sono le parole di un pacifista. Heidegger non lo è
mai stato. Quando le scrive, nel 1940, sulla guerra planetaria
non si fa più illusioni. Pensa a distinguere il Kampf
dal Krieg, ad essere custode del custode, a custodire non
il sovrano che aveva deciso l’eccezione, ma il sovrano che
lascia essere ogni cosa e regna custodendo l’Essere.
20. «Weltjudentum». Il complotto mondiale ebraico
Nell’immagine totalizzante del nemico, che i nazisti si
contrappongono, l’ebreo, nei momenti di maggiore intensità,
diventa Juda e, in una laida iperbole, Alljuda. La
«maledizione del superlativo» caratterizza la Lingua Tertii
Imperii e trova espressione in particolare nei composti
in cui compare il prefisso Welt, mondo.396 Come ogni
discorso di Hitler è preceduto dal titolo «Il mondo
ascolta il Führer», così ogni evento che riguardi il Reich
ha rilevanza mondiale, si inscrive, anzi, nella storia del
mondo, decidendone il corso: è weltgeschichtlich. In questo
senso ebrei e bolscevichi sono i nemici mondiali di
una guerra planetaria.
Nell’ultima parte dei Quaderni neri – nelle Riflessioni
XIII e XIV – in pagine che risentono del clima bellico e
186 capitolo terzo
risalgono al 1940 e al 1941, Heidegger parla in modo
esplicito di internationales Judentum, «ebraismo internazionale
», e soprattutto di Weltjudentum, «ebraismo mondiale
».397 Come emerge anche dal contesto, questi termini
non sono per nulla neutrali; al contrario, sono
connotati negativamente e lanciano un’accusa. Per un
filosofo come Heidegger, attento a evitare ogni uso strumentale
del linguaggio, la ricorrenza di Weltjudentum
non può essere casuale. Che cosa significa allora parlare
di «ebraismo mondiale»? A che cosa rinvia il termine?
Parlare di Weltjudentum vuol dire condividere, assecondare
e diffondere il mito del complotto mondiale
ebraico. Ciò risponde a una testimonianza di Jaspers che
finora era parsa alquanto sorprendente. Ricordando un
colloquio con Heidegger, avvenuto a Heidelberg nel maggio
1933, Jaspers annota: «parlai della questione ebraica,
della malvagia assurdità intorno agli anziani di Sion, al
che lui replicò: “ma c’è una pericolosa connessione internazionale
degli ebrei”».398
Qual è il mito del complotto ebraico? Perché era in
auge proprio in quel periodo? Com’è stato costruito?
Qual è la scena “originaria” della cospirazione?
È notte quando, nel cimitero ebraico di Praga, si incontrano
un giovane studioso di Berlino, dagli inconfondibili
tratti germanici, l’aspetto spirituale e volitivo, e un tale
Lasali, un ambiguo ebreo italiano, battezzato e senza scrupoli,
pronto a svelargli il «segreto» degli ebrei, a introdurlo
nella Kabbalah, la cospirazione ebraica contro il
mondo intero. Nell’oscurità mistica e raggelante sentono
cigolare i cancelli del cimitero; lunghi mantelli, ombre
confuse, passano furtivamente. Sono le dodici tribù di
Israele che ogni cento anni si danno convegno per fare il
punto sulla conquista del mondo. È un grande sinedrio a
cui prende parte anche una tredicesima tribù, quella degli
esiliati. A presiedere è Aaron, che rappresenta i leviti. Per
ogni tribù risuona il nome di una metropoli europea – è il
la questione dell’essere e la questione ebraica 187
segno del potere ebraico. Ciascuno presenta un bilancio
degli ultimi cento anni e propone la propria macchinazione:
traffici in borsa, indebitamento degli stati, acquisizione
di proprietà terriere, riduzione degli artigiani a operai,
distruzione delle chiese, indebolimento degli eserciti,
rafforzamento della rivoluzione, monopolio del commercio,
occupazione dei servizi pubblici, egemonia della cultura,
matrimoni misti, sovvertimento della morale. Da
ultimo interviene Manasse per dire che a nulla servirebbe
tutto ciò senza la stampa, che trasforma l’ingiustizia in
giustizia, l’umiliazione in onore, che separa le famiglie e fa
tremare i troni. Aaron conclude ricordando che al popolo
di Abramo, disperso sulla terra, la terra intera dovrà
appartenere. I tempi non sono mai stati così vicini. Perché
l’oro è il dominio sul mondo – questo è il segreto della
Kabbalah. Nella lotta millenaria di Israele finalmente il
nuovo secolo sarà quello della sua vittoria.
Questa è la scena “originaria” della cospirazione, scaturita
dalla penna di un grigio funzionario delle poste
prussiane Herrmann Ottomar Friedrich Gödsche che nel
1868 pubblicò il mediocre romanzo Biarritz, al cui
interno vi era un capitolo intitolato Nel cimitero di Praga.
Il successo era assicurato. E il racconto fantastico passò
presto per un falso documento. Così, nel 1881, uscì nella
rivista francese «Contemporain» Il discorso del rabbino, il
riassunto di quel lugubre convegno che – si garantiva –
aveva realmente avuto luogo.
Non si trattava però ancora dei Protocolli dei savi di
Sion. Gödsche non fornì che il modello letterario. Chi ha
scritto allora i Protocolli? Quando e dove? Norman Cohn
ha tentato di venire a capo della intricatissima trama che
ha prodotto il mito della cospirazione ebraica.399 Ma la
storia, tutt’altro che finita, non ha un vero e proprio inizio.
Già solo perché il presunto originale manca.400 Né si
sa chi sia l’autore. Ben più importanti della genesi del
testo sono, d’altronde, i suoi effetti.
188 capitolo terzo
I Protocolli furono fabbricati a Parigi, ai primi del
Novecento, su ordine della polizia segreta dello zar, la
famigerata okhrana, allora diretta, nella sezione esteri, da
Pierre Ivanovic Rachovskij, il quale si rivolse a un suo
amico, Matthieu Golovinskij che, da buon falsario, manipolò
e rielaborò testi già esistenti: il pamphlet di Maurice
Joly Dialogo all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu,
scritto contro Napoleone III nel 1864, oltre al romanzo
Biarritz. L’intento, eminentemente politico, era quello di
rendere pubblico il verbale delle presunte sedute segrete
tenute dai dirigenti dell’«ebraismo mondiale», per rivelarne
il piano di conquista del mondo e mettere in guardia
non solo il governo russo, ma tutta l’opinione internazionale.
Nelle loro rocambolesche vicissitudini i Protocolli,
un palinsesto di un centinaio di pagine, suddiviso in ventiquattro
capitoli, ricomparvero, nel 1905, in appendice al
volume Il Grande nel Piccolo: l’Anticristo è una possibilità
politica imminente del mistico russo Serghej Aleksandrovic
Nilus. In una dimensione apocalittica la figura dell’anticristo
veniva adattata all’idea del complotto.401 La mobilitazione
antisemita attingeva così all’archivio simbolico dell’antigiudaismo
cristiano per rafforzare il racconto
cospirazionista, per imprimere alla versione secolare l’aura
del mistero, innalzando l’effige di un nemico assoluto.
Motivi teologici e politici si fondevano nei «saggi di
Sion», figure fittizie in cui convergevano a un tempo gli
antichi saggi di Israele, che dall’epoca di Salomone avrebbero
progettato un piano contro l’umanità, i dirigenti sionisti,
a cominciare da Theodor Herzl, e gli sconosciuti
burattinai che avrebbero retto le fila dell’intrigo. Un
catalizzatore diventò dunque il sionismo, inteso «come
un piano strategico per conquistare il mondo e sottometterlo
al giogo di Israele».402 La diffusione dei Protocolli
coincise infatti con i primi congressi sionisti, da quello di
Basilea, del 1897, al sesto, quello dell’agosto 1903. E non
è un caso che l’ideologo völkisch Theodor Fritsch nel
la questione dell’essere e la questione ebraica 189
1924 pubblicasse la sua versione dei falsi con il titolo Die
zionistischen Protokollen (I Protocolli sionisti).
Ma il «pericolo ebraico» fu soprattutto il «pericolo
rosso». Dal 1903 fino alla rivoluzione d’ottobre, i Protocolli
costituirono una potente arma ideologica nelle mani
di coloro che volevano fermare ogni tentativo di riforma
in cui leggevano una manovra del complotto e un passo
verso la giudeizzazione.
Tradotti e pubblicati, con nuove prefazioni e postfazioni,
con titoli e sottotitoli che ne orientavano ogni volta
il messaggio, i Protocolli attraversarono le capitali europee
e giunsero in Germania dove, nel 1920, uscirono nell’edizione
curata da Gottfried zur Beek, alias Ludwig
Müller, con l’emblematico titolo Die Geheimnisse der
Weisen von Zion (i segreti dei saggi di Sion). La risonanza
fu enorme; in un anno la casa editrice Auf Vorposten riuscì
a vendere oltre centoventimila copie.403 In seguito,
quando i nazisti salirono al potere, i Protocolli, con un
decreto del 13 ottobre 1934, diventarono lettura obbligatoria
nelle scuole tedesche.
Inizialmente la finzione del complotto ordito dall’ebraismo
mondiale servì a fornire una comoda spiegazione
all’esito catastrofi
No comments:
Post a Comment