Monday, February 13, 2017

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c5kwlat2mogzc2fs — gpdimonderoseGià“È’Evento Già Là”Già’ “EVENTö” in sé vi è da sé già “EVENTö”«È in sé»dà da sé»Dà essercì  Già esserne in sé  già Radurapsodyx già in sé È già“EVENTö” Già di per sé In sé È là–«in sé».

Là”Già«Dà È già “EVENTö”»lì Lì aleggia Lì

Già C’è è C’è al di là è Lì al di là Lì In Sé Radurapsodìx Là è “EVENTöntopologico dell’essere là è già C’è Rapsodyx È già“là” creatric“EVENTö”Lì della radurità In sé “EVENTö”«là» È lì Al di là dal nulla già in sé.“EVENTö”della physix che mondeggia ontostoria dell’Esser“EVENTö”
della ontostoria dell’Essere Già la fine della metafisica.



L’“EVENTö”ontostoria mondeggia abissal“EVENTö” nel nulla del nihilx dell’Essere là’esserci È iN sé ontostoria dell’esser“EVENTö” l’oltremetafisica Senzaperché della ontostoria che mondeggia ontotempora–metastabilità dell’Essere

lì c’è spaziontopolOgia ontostoricità dell’esser“EVENTö”dell’essere Katà“EVENTö”Già esserci ontostoria dell’essere già “EVENTö”dall’Essere ontostoricità è l’Esserne della ontostoria dell’Essere Là ontologica è l’Esserci dello spaziontotempora dell’Essere In sé è l’EssernE paradigma dell’esser“EVENTö””c’è nulla

senzaPerché ««Già dell’Essere già“EVENTö”». Già ontostoria-ontologica della RadurApsody––è esserci L’ontostoricoNtOtempora pensa l’Essere al di là quale ontostorico “EVENTö” senzaPErCHé già ontomodern-dell’essere già L’“EVENTö”della creatività In“Sé»»eventontosofiax senzaperché”Nullaratiousiax già dall’“EVENTö”»là ontotempora dell’essere––là pensant“EVENTö” dall’esserne»abissal“EVENTö”dell’esserci’“EVENTö”dell’essere–«vuoto in Sé»tramonto della metafisica. Meta“EVENTö”Perché«pensiero»tramonto dalla metafisica È pensiero dall’esser“EVENTö”«pensierontotempora» Senzaperché è l’’«essereontostorico»là: è là RadurApsodyx spaziontoteporadell’essere––– «ontostorico»già“Essere”nihilx Radurapsodyx dell’essere già«là»l’evento d’exstasyx

Al di là

L’“È”–EreigniStory tramontanza-della-metafisica È eventramontanza della metafisica’ultima. Già  Esserontotempora del tramonto metafisico È’esserci già “EVENTö”dell’essereventramontanza della metafisica-ontoteologiCa–già«al di là»della«metafisica» crea dal

nulla«rapsodyx» È senzaperché là già aleggia radura dell’essere dal nulla dell’esser“EVENTöntoTempora “EVENTraMontanza della metafisica vi è sènzaperché dal nulla TraMontanza dellla metafisica è phýsix“EVENTraMontanza poíesix“EVENTraMontanza nel «pensiero della creazione». L’“EVENTraMontanza crea crea-“EVENTraMontanza della metafisica crea il crear’Esser“EVENTraMontanza della Metafisica ontophýsix è “EVENTraMontanza della metafisica Esser“EVENTraMontanza Della metafisica si dà dal nulla è senzaperché là è senza fondamento senzaperché

l’Esser“EVENTraMontanza della Metafisica è “EVENTraMontanza della metafisica della

makinaouxiax è ontostoria ““EVENTO”dell’Essere–– è L’““EVENTO”dell’Essere È là vuoto senzaperché ““EVENTOntologicontostoria dell’Essere già è «già abissaL““EVENTO”creativo dell’Essere senzaPerché “EVENTO”dell’Essere«là»ontostorico l’evento dell’al di là«è in sé»là è abissal“EVENTO”vuotonullo spaziontotempora dell’essere là già È si dà senzaPerché dall’evento dell’Essere RadUrapsoDyx È Radura già Là Radurapsodia dell’essere’ontoStoria“Senzaperché tramontanza della metafisica del nulla. Là è nulla«Dall’“EVENTO”Là dall’’esser“EVENTO”della ontostoria al di là della Metafisica” già Là’Essere Oltresser“EVENTO”–senzaperché già Senza la verità–MeTafiSica crea«ontostoria–dal nulla senzaPerché RadURa dell’Esser“EVENTramOntanza della metafisica». RaduRabissale dell’essere È “EVENTO Radurapsodiabissale nella ontostoria mondeggia” È “EVENTramOntanza della metafisicabixalex.

«“RadurapsodiabiSsal“EVENTramOntanzabixalex della metafisicAbixalex è già Radurabissale”. L’“EVENTO In sé tramontanzabixalex metafisicabixalex”è Physixabixalessersi Dà evento“RaduRabissal’“EVENTO”dell’essere dà là»» in sé senzaperché D’’esser“EVENTO creatrix tramoNtanzabixalex della metafisicabixalex»là»»”già»là«“EVENTOdell’esserci»«gettanzabixalex»Esser“EVENTO è’esserci ontostorico»l’esserci è gettanzabissalontostorica è gettanzabiSsale essere«già’’esserci»in sé che fonda Kata“EVENTÜX»ontologico»dell’essere tramontanzabixalex della Metafisicabissale”.

È già””––”””» crea”»””D’ESserKata“EVENTÜX»È–CrEaTrix “EVENTÜXdell’essere””senzaperché»

Là”nullabixalE là “EVENTÜX dell’essere”dell’esserne abixalex”–»È»«gettanzabixalex»essersi ad esser“EVENTÜXdell’essere”è Già’aldilà”È tranxsonazabixalex:là dell’essere ««RaDuRabixalexdell’essere esserne»’oltremetàfisiCabissale». Filogosofiabixalex«oltre la Metafisicabissale è “EVENTÜXdell’essere” Al di là«Del nullabiSsale nullabissal’“EVENTÜX dell’essere Deabixalex già interevento È“Essere ontotemporabissale–––“fenoumenologiabixalex”–creatrixabixalex creerà L’“EVENTÜX dell’essere Esserne Radurabissale’è tramontanzabixalex della metafisicabissale al di là già––l’esserci epifenoumenalità DeAbixal’“EVENTÜX dell’essere esserci dell’essere Crea “EVENTÜXdell’essere è senzaperché l’essere in sé’già ontologiabixalex è alétheiabixalex svelatezzabixalex dell’essere tramontanzabixalex della metafisicabiSsale. Radur“EVENTÜX«in sé’»già là PletonRapsodyX È già “EVENTÜXdell’essere kata“EVENTÜX”–dell’essere oltre la metafisicabissale quale fondazione della

verità dell’Essere. “EVENTÜX”–della tramontanzabixalex della metafisicabissale in sé si dà l’Esser“EVENTÜX”senza la metafisica consente la fondazione

della verità dell’Esser“EVENTÜX”d’al di là È l’essere oltre il pensare metafisico È senzaperché dell’EsserEVENTÜX”ontopologiabiSsale già nihil’EVENTÜX”dell’essere»»»’EVENTÜX”»’abissale ontopologico»’’EVENTÜX”»»»» «tranxsonanzabixalex dell’ “’EVENTÜX””senzaPerché Ontopologià–«dell’essere lì là»»»».«È “’EVENTÜX””»là Lì è«creatività»–gettanzabixalex–dell’essere già KataEVENTÜX””.

Già catastrof’EVENTÜX””senzaperché caosmox’abixal’essere senza metafisica è l’essere la verità dell’essere“oltre”È

nihil“’EVENTÜX””«Oltre»nihil’EVENTÜX”al di là della Metafisica là oNtotemporabixalex«oltre»al di là nihilEVENTÜX è già«oltre»la metafisica’oblio dell’essere là dell’esserne dell’esserci. RadÜra nella ontostoria dell’essere

È’EVENTopologiabixalex––ontostoria

dell’Essere ontopologiabiSSale Al di là già già Là’EVENTÜX”dell’essere già” è senzaperché””Essere’per la morte» in sé è’EVENTÜX”–Già In sé ontopologiabisSale dell’essere: PletonRapsoD’EVENTÜX–senzaperché Deabixalex senza metafisica–«essere-per-la-morte’ è esser’EVENTÜX per la morte. EVENTÜXdell’essere ontostoria È’EVENTÜXesseregià d’EssernÈ’EVENTÜX”È’oltre in sé là AL«di»Là»dellaMeTafiSica. Oltresser’EVENTÜX”è indicibilesserci senzaperché al di là del–perché d’esserEVENTÜX”–d’esserneGià nihil’EVENTÜX in sé Katà’EVENTÜX”In Sé è già dell’essere Già Oltre LA MeTafisiCA.“RadurabiSSAlEdell’essere SEnza metafisicA In Sé”Oltressere senzaperché RadurApsodiAbissal«esserne»’essere-nel-mondontostorico esserci.

L’’«essere ontostorica là D’’EVENTÜX”senzaperché tramotanza della metafisica È Già soggiornabixalexontostorico oltresserne

dà soggiorna impensatabissale esserci c’è’arché È senzaPerché crea dà luogo al soggiornare è il luogo dell’Ereignis,

dell’evento in cui si dà la ontostoria ““’EVENTÜX””’ultimo, il suo carattere totalitario,

che non dipende, «come credono animi ingenui, dal

casuale arbitrio di dittatori» – e l’allusione a Schmitt non

è neppure troppo velata – ma è «fondata sull’essenza

della metafisica».373

Mettere in questione l’originaria dicotomia amiconemico

non vuol dire tuttavia negare il pólemos, che Heidegger

traduce spesso con Kampf, lotta, né vuol dire contestare

l’esistenza del nemico.374 Sebbene Feind non sia

un termine chiave del vocabolario filosofico di Heidegger,

e non ricorra che di rado nella sua opera, tuttavia si

presenta in alcuni passaggi strategici degli scritti risalenti

agli anni trenta, in particolare nei Quaderni neri.

Chi è allora il “nemico” per Heidegger? Forse bisognerebbe

chiedere che cos’è il nemico? Oppure sarebbe più

corretto riprendere la domanda del seminario su Hegel:

«su che base qualcuno diventa ed è nemico»?

La risposta di Heidegger è ambivalente, muta nel corso

degli anni, dal 1933 al 1941, e si sviluppa in un rapporto

la questione dell’essere e la questione ebraica 181

non esplicito, eppure evidente, con Schmitt, di cui si

avverte l’influsso all’inizio e che, in seguito, viene preso

di mira. Altrettanto chiaro è che il nemico, inteso come

hostis, il nemico pubblico, è l’ebreo, sebbene Heidegger,

a differenza di Schmitt, si guardi dal porre accanto a

Feind l’identificativo Jude.

Nelle lezioni del 1933, che sono state pubblicate con il

titolo Sein und Wahrheit (Essere e verità), Heidegger

sostiene che il nemico è colui dal quale proviene una

«minaccia essenziale» all’esistenza del popolo. «Non

occorre che il nemico sia esterno, e non sempre quello

esterno è il più pericoloso».375 Proprio quando sembra

non essercene alcuno, è indispensabile «trovare il

nemico, metterlo in luce». Oltre all’esigenza esistenziale

– evitare, cioè, che l’esserci si intorpidisca – emerge la

necessità politica. E dunque Heidegger afferma:

Il nemico può essersi insediato nella radice più intima dell’esserci di

un popolo, contrastarne e pregiudicarne l’essenza propria. Tanto più

accanita, dura e difficile è la lotta, perché solo in minima parte consiste

nel combattimento aperto; spesso è ben più impegnativo e faticoso

tener d’occhio il nemico, far sì che si sfoghi, non farsi avanti,

tenersi pronti all’attacco, curare e rafforzare la continua prontezza e

disporre l’attacco a lungo termine con il fine del completo annientamento.

376

L’immagine del nemico interno, che intacca l’essenza

del popolo, non può non ricordare Schmitt.377 Si

dovrebbe dunque pensare che Heidegger lo segua in

modo pedissequo nell’identificazione di quel nemico

ontologico e politico che è evidentemente l’Ebreo.

Qualche anno più tardi, però, nei Quaderni neri, il

nemico diventa il tema di una domanda che riprende

quella formulata nel seminario su Hegel e, anzi, la corregge.

«Dove sta il nemico e come viene creato? Dov’è

diretto l’attacco? Con quali armi?».378 Heidegger si interroga

sulla linea del fronte.379 Sebbene metta l’accento sul

Kampf für das Wesen, la «lotta per l’essenza», che i tede-

182 capitolo terzo

schi devono combattere, contesta chi, oltre a indicare

nell’avversario immediatamente un nemico, fa del

nemico il «diavolo», lo demonizza, e in tal modo elimina

non solo il carattere creativo della conflittualità, ma

rende impossibile la stessa lotta per l’essenza.380

Non è difficile indovinare contro chi sia rivolta la critica

di Heidegger che sottolinea due pericoli: quello di

«assolutizzare il “politico”» oppure di «installarlo in un

cristianesimo apparentemente nuovo».381 Ma la critica è

ancora più netta quando viene preso di mira il «cattolicesimo

politico» a cui è subentrata la «politica “cattolica”»,

cioè – riconducendo etimologicamente “cattolico” a

kathólou, in tutto – quella politica che, per la sua velleità

di dominare, può dirsi «totale». Come Schmitt aveva

usato un aggettivo, il “politico”, così Heidegger parla sarcasticamente

del “cattolico”, la cui essenza non sta nel

cristianesimo; ha assunto per la prima volta forma nel

«gesuitismo» e si è andato costituendo nel «contro…», a

cominciare dalla Controriforma. Il «cattolico» è

«romano – spagnolo; completamente non-nordico, del

tutto non-tedesco».382 Se Schmitt gli rimprovererà una

escatologia ateologica e deteologizzata, Heidegger a sua

volta ne denuncia la dogmatica cattolica del nemico.

Ogni dogmatismo, politico-clericale o politico-statale, intende necessariamente

qualsiasi pensare e agire che sia, in apparenza o in realtà,

divergente, come un consenso a ciò che ad esso, al dogmatismo, è

nemico – pagani e senzadio, ebrei e comunisti. In questo modo di

pensare è insita una forza peculiare – non del pensiero – ma dell’imporsi

di quel che è proclamato.383

E mentre la guerra diventa totale, Heidegger guarda

sempre più al pólemos. Qual è allora la differenza tra

guerra e lotta, tra Krieg e Kampf, e quale distanza si profila

rispetto a Schmitt? Come aveva inaugurato il loro

confronto, così il pólemos lo chiude. Heidegger rovescia il

rapporto: è il pólemos il presupposto del nemico, non

viceversa.384 Per Schmitt, a partire dal nemico si apre l’ola

questione dell’essere e la questione ebraica 183

stilità, che permea e permette il “politico”, un’ostilità di

cui la guerra è la realizzazione estrema. Se Clausewitz

aveva detto che «la guerra non è che la continuazione

della politica con altri mezzi», Schmitt sostiene che è la

guerra «il presupposto della politica».385 In tal modo si

delinea una continuità tra nemico-lotta-guerra che costituisce

l’asse politico del suo pensiero.

Per Heidegger sussiste, al contrario, discontinuità tra

lotta e guerra. E, anzi, dove si impone la guerra, e l’avversario

sul fronte si erge a nemico, il pólemos si irrigidisce

e perde la sua profondità ontostorica. Perciò Heidegger

non condivide il modo in cui Schmitt vede la guerra.

E come Feind, nemico, non è un termine chiave del suo

vocabolario, così non lo è neppure Krieg, guerra. Questo

non gli impedisce di riflettere sulla forma ultima assunta

dalla guerra mentre, alla fine degli anni trenta, la Germania

già avanza a tappe forzate verso la catastrofe.

La guerra non è, come Clausewitz pensa ancora, la continuazione

della politica con altri mezzi; se “guerra” si riferisce alla “guerra

totale”, cioè a quella che, come tale, scaturisce dalla svincolata macchinazione

dell’ente, allora la guerra diviene trasformazione della

politica […]. Tale guerra non prosegue qualcosa che già sussiste,

bensì lo costringe a eseguire decisioni essenziali che, a sua volta, non

padroneggia. Perciò questa guerra non ammette più «vincitori» e

«vinti»; tutti diventano schiavi della storia dell’Essere.386

La guerra rivela la sottomissione della politica al potere,

ne fa affiorare l’uso strumentale. Il carattere «totale»

deriva dall’abbandono dell’essere. Non c’è più differenza

tra guerra e pace – a meno di non confondere quest’ultima

con un armistizio temporaneo. Da quando la guerra è

divenuta mondo, e il mondo è divenuto guerra, non c’è

più posto per la pace.387Ma non c’è più spazio neppure per

il nemico – e forse per l’amico – e per tutte quelle distinzioni

pure che Schmitt si intestardisce a conservare.388

Se non c’è più opposizione tra guerra e pace, resta

allora una opposizione, rimane una via d’uscita e di

184 capitolo terzo

scampo dalla «totalità» della guerra? In uno schema che

Heidegger propone nei Quaderni neri, mentre la guerra e

la pace scivolano nel mezzo, agli estremi si collocano il

pólemos e la decisione.389

Più volte Heidegger, già a partire da Essere e tempo, è

tornato sul pólemos che traduce in genere con Kampf,

lotta, ma anche con Streit, contrasto, e con Auseinandersetzung,

confronto. Per comprendere il significato di

Kampf, questo termine chiave del suo vocabolario filosofico,

occorre considerare il frammento 53 di Eraclito, la

cornice entro cui Heidegger lo pensa: «pólemos è padre di

tutte le cose, di tutte re; gli uni disvela come dei e gli altri

come uomini, gli uni rende schiavi, gli altri liberi». Il dissenso

non dissocia, il conflitto mantiene e raccoglie – è

raccoglimento. Di qui il nesso tra pólemos e lógos.390 Se

nella riflessione di Schmitt è un concetto torbido, in Heidegger

è chiaro che il pólemos non è armato. Attiene

all’interrogazione e perciò all’erotico contendere dei filosofi.

Ma il suo significato è ampio e pervade la comunità.

«Ogni comunità porta con sé, nel suo orecchio, la voce

dell’avversario una sorta di resistenza interna».391 Il

nemico ridiventa avversario, e l’avversario si ritrae quasi

nel richiamo della coscienza, la voce dell’altro che parla

nel sé. Lo scarto rispetto a Schmitt è «irriducibile» – sottolinea

Derrida.392 Perché in effetti Schmitt rivendica il

pólemos al discorso sulla guerra. Non così Heidegger, che

non dimentica le parole di Eraclito: pólemos è patèr,

padre, generatore, ed è pânton basileús, il «sovrano di

ogni ente»; ma basileús, che non significa semplicemente

«re», è il waltender Bewahrer, il custode che dominando

lascia essere nella Aus-ein-ander-setzung, in quel confronto

che è un dispiegarsi l’uno grazie all’altro. Il pólemos

è il custode che regna e regnando custodisce l’Essere.

Nella «lotta “spirituale”» non ne va del Sieg, della vittoria.

393 Ci sono combattenti, Kämpfer, che hanno sempre

bisogno di un avversario, anzi di un nemico; «se manca,

la questione dell’essere e la questione ebraica 185

lo inventano», perché altrimenti non sembrano avere più

scopo. Così combattono sempre per il nemico, rendendosene

dipendenti. Ci sono invece combattenti che lottano

per il loro fine e la cui somma battaglia, quella per le decisioni

essenziali, non è volta al «possesso e al successo, al

potere e al piacere», bensì all’«inizio della storia dell’essere

».394

Essere-vincitori – non significa solo uscire vittoriosi da una battaglia;

il vincitore potrebbe essere anche chi ha avuto la peggio perché si è

votato esclusivamente all’obiettivo e alla tattica del nemico, e ancor

più lo farà nel futuro. Essere vincitori vuol dire imprimere alla lotta il

fine proprio e più elevato.395

Non sono le parole di un pacifista. Heidegger non lo è

mai stato. Quando le scrive, nel 1940, sulla guerra planetaria

non si fa più illusioni. Pensa a distinguere il Kampf

dal Krieg, ad essere custode del custode, a custodire non

il sovrano che aveva deciso l’eccezione, ma il sovrano che

lascia essere ogni cosa e regna custodendo l’Essere.

20. «Weltjudentum». Il complotto mondiale ebraico

Nell’immagine totalizzante del nemico, che i nazisti si

contrappongono, l’ebreo, nei momenti di maggiore intensità,

diventa Juda e, in una laida iperbole, Alljuda. La

«maledizione del superlativo» caratterizza la Lingua Tertii

Imperii e trova espressione in particolare nei composti

in cui compare il prefisso Welt, mondo.396 Come ogni

discorso di Hitler è preceduto dal titolo «Il mondo

ascolta il Führer», così ogni evento che riguardi il Reich

ha rilevanza mondiale, si inscrive, anzi, nella storia del

mondo, decidendone il corso: è weltgeschichtlich. In questo

senso ebrei e bolscevichi sono i nemici mondiali di

una guerra planetaria.

Nell’ultima parte dei Quaderni neri – nelle Riflessioni

XIII e XIV – in pagine che risentono del clima bellico e

186 capitolo terzo

risalgono al 1940 e al 1941, Heidegger parla in modo

esplicito di internationales Judentum, «ebraismo internazionale

», e soprattutto di Weltjudentum, «ebraismo mondiale

».397 Come emerge anche dal contesto, questi termini

non sono per nulla neutrali; al contrario, sono

connotati negativamente e lanciano un’accusa. Per un

filosofo come Heidegger, attento a evitare ogni uso strumentale

del linguaggio, la ricorrenza di Weltjudentum

non può essere casuale. Che cosa significa allora parlare

di «ebraismo mondiale»? A che cosa rinvia il termine?

Parlare di Weltjudentum vuol dire condividere, assecondare

e diffondere il mito del complotto mondiale

ebraico. Ciò risponde a una testimonianza di Jaspers che

finora era parsa alquanto sorprendente. Ricordando un

colloquio con Heidegger, avvenuto a Heidelberg nel maggio

1933, Jaspers annota: «parlai della questione ebraica,

della malvagia assurdità intorno agli anziani di Sion, al

che lui replicò: “ma c’è una pericolosa connessione internazionale

degli ebrei”».398

Qual è il mito del complotto ebraico? Perché era in

auge proprio in quel periodo? Com’è stato costruito?

Qual è la scena “originaria” della cospirazione?

È notte quando, nel cimitero ebraico di Praga, si incontrano

un giovane studioso di Berlino, dagli inconfondibili

tratti germanici, l’aspetto spirituale e volitivo, e un tale

Lasali, un ambiguo ebreo italiano, battezzato e senza scrupoli,

pronto a svelargli il «segreto» degli ebrei, a introdurlo

nella Kabbalah, la cospirazione ebraica contro il

mondo intero. Nell’oscurità mistica e raggelante sentono

cigolare i cancelli del cimitero; lunghi mantelli, ombre

confuse, passano furtivamente. Sono le dodici tribù di

Israele che ogni cento anni si danno convegno per fare il

punto sulla conquista del mondo. È un grande sinedrio a

cui prende parte anche una tredicesima tribù, quella degli

esiliati. A presiedere è Aaron, che rappresenta i leviti. Per

ogni tribù risuona il nome di una metropoli europea – è il

la questione dell’essere e la questione ebraica 187

segno del potere ebraico. Ciascuno presenta un bilancio

degli ultimi cento anni e propone la propria macchinazione:

traffici in borsa, indebitamento degli stati, acquisizione

di proprietà terriere, riduzione degli artigiani a operai,

distruzione delle chiese, indebolimento degli eserciti,

rafforzamento della rivoluzione, monopolio del commercio,

occupazione dei servizi pubblici, egemonia della cultura,

matrimoni misti, sovvertimento della morale. Da

ultimo interviene Manasse per dire che a nulla servirebbe

tutto ciò senza la stampa, che trasforma l’ingiustizia in

giustizia, l’umiliazione in onore, che separa le famiglie e fa

tremare i troni. Aaron conclude ricordando che al popolo

di Abramo, disperso sulla terra, la terra intera dovrà

appartenere. I tempi non sono mai stati così vicini. Perché

l’oro è il dominio sul mondo – questo è il segreto della

Kabbalah. Nella lotta millenaria di Israele finalmente il

nuovo secolo sarà quello della sua vittoria.

Questa è la scena “originaria” della cospirazione, scaturita

dalla penna di un grigio funzionario delle poste

prussiane Herrmann Ottomar Friedrich Gödsche che nel

1868 pubblicò il mediocre romanzo Biarritz, al cui

interno vi era un capitolo intitolato Nel cimitero di Praga.

Il successo era assicurato. E il racconto fantastico passò

presto per un falso documento. Così, nel 1881, uscì nella

rivista francese «Contemporain» Il discorso del rabbino, il

riassunto di quel lugubre convegno che – si garantiva –

aveva realmente avuto luogo.

Non si trattava però ancora dei Protocolli dei savi di

Sion. Gödsche non fornì che il modello letterario. Chi ha

scritto allora i Protocolli? Quando e dove? Norman Cohn

ha tentato di venire a capo della intricatissima trama che

ha prodotto il mito della cospirazione ebraica.399 Ma la

storia, tutt’altro che finita, non ha un vero e proprio inizio.

Già solo perché il presunto originale manca.400 Né si

sa chi sia l’autore. Ben più importanti della genesi del

testo sono, d’altronde, i suoi effetti.

188 capitolo terzo

I Protocolli furono fabbricati a Parigi, ai primi del

Novecento, su ordine della polizia segreta dello zar, la

famigerata okhrana, allora diretta, nella sezione esteri, da

Pierre Ivanovic Rachovskij, il quale si rivolse a un suo

amico, Matthieu Golovinskij che, da buon falsario, manipolò

e rielaborò testi già esistenti: il pamphlet di Maurice

Joly Dialogo all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu,

scritto contro Napoleone III nel 1864, oltre al romanzo

Biarritz. L’intento, eminentemente politico, era quello di

rendere pubblico il verbale delle presunte sedute segrete

tenute dai dirigenti dell’«ebraismo mondiale», per rivelarne

il piano di conquista del mondo e mettere in guardia

non solo il governo russo, ma tutta l’opinione internazionale.

Nelle loro rocambolesche vicissitudini i Protocolli,

un palinsesto di un centinaio di pagine, suddiviso in ventiquattro

capitoli, ricomparvero, nel 1905, in appendice al

volume Il Grande nel Piccolo: l’Anticristo è una possibilità

politica imminente del mistico russo Serghej Aleksandrovic

Nilus. In una dimensione apocalittica la figura dell’anticristo

veniva adattata all’idea del complotto.401 La mobilitazione

antisemita attingeva così all’archivio simbolico dell’antigiudaismo

cristiano per rafforzare il racconto

cospirazionista, per imprimere alla versione secolare l’aura

del mistero, innalzando l’effige di un nemico assoluto.

Motivi teologici e politici si fondevano nei «saggi di

Sion», figure fittizie in cui convergevano a un tempo gli

antichi saggi di Israele, che dall’epoca di Salomone avrebbero

progettato un piano contro l’umanità, i dirigenti sionisti,

a cominciare da Theodor Herzl, e gli sconosciuti

burattinai che avrebbero retto le fila dell’intrigo. Un

catalizzatore diventò dunque il sionismo, inteso «come

un piano strategico per conquistare il mondo e sottometterlo

al giogo di Israele».402 La diffusione dei Protocolli

coincise infatti con i primi congressi sionisti, da quello di

Basilea, del 1897, al sesto, quello dell’agosto 1903. E non

è un caso che l’ideologo völkisch Theodor Fritsch nel

la questione dell’essere e la questione ebraica 189

1924 pubblicasse la sua versione dei falsi con il titolo Die

zionistischen Protokollen (I Protocolli sionisti).

Ma il «pericolo ebraico» fu soprattutto il «pericolo

rosso». Dal 1903 fino alla rivoluzione d’ottobre, i Protocolli

costituirono una potente arma ideologica nelle mani

di coloro che volevano fermare ogni tentativo di riforma

in cui leggevano una manovra del complotto e un passo

verso la giudeizzazione.

Tradotti e pubblicati, con nuove prefazioni e postfazioni,

con titoli e sottotitoli che ne orientavano ogni volta

il messaggio, i Protocolli attraversarono le capitali europee

e giunsero in Germania dove, nel 1920, uscirono nell’edizione

curata da Gottfried zur Beek, alias Ludwig

Müller, con l’emblematico titolo Die Geheimnisse der

Weisen von Zion (i segreti dei saggi di Sion). La risonanza

fu enorme; in un anno la casa editrice Auf Vorposten riuscì

a vendere oltre centoventimila copie.403 In seguito,

quando i nazisti salirono al potere, i Protocolli, con un

decreto del 13 ottobre 1934, diventarono lettura obbligatoria

nelle scuole tedesche.

Inizialmente la finzione del complotto ordito dall’ebraismo

mondiale servì a fornire una comoda spiegazione

all’esito catastrofi

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