diviene ancora più evidente che è il filosofo stesso a rendere lecito (e ad incoraggiare) l’utilizzo del termine per indicare una variazione nel/del sentiero della propria riflessione.
Nessun problema, dunque, se ci limitiamo ad ammettere che il fallimento del progetto di Sein und Zeit fa sì che Heidegger imbocchi una strada diversa e si dedichi ad una riflessione sull’essere (che non parta più dall’esserci)
e se accettiamo che è egli stesso a dare a tutto ciò il nome di Kehre. I problemi iniziano invece quando, a partire da tutto questo, alcuni interpreti (poco avveduti forse) non riescono a resistere alla tentazione di dividere schematicamente e sistematicamente la riflessione heideggeriana in due fasi, distinte tra loro e, nei casi peggiori, separate. Esiste, effettivamente, una certa differenza, che rende il “secondo” Heidegger irriducibile al “primo” e forse, in alcuni casi, pure autonomo. Del resto, qualsiasi attento lettore dell’opera heideggeriana si può rendere conto che, quanto egli ha sviluppato a partire dalla riflessione sull’essere non sarebbe stato possibile nell’orizzonte di pensiero di Sein und Zeit. Parimenti, lo stesso lettore attento dovrebbe, però, riconoscere che, proprio l’esperienza del fallimento del progetto di Sein und Zeit è decisiva per il pensiero e per il suo cammino successivo. Ed è proprio una tale esperienza a legare il “secondo” Heidegger al “primo”. Bisogna però prestare attenzione a non fare della “svolta” un mero cambiamento della prospettiva di Sein und Zeit, una sorta di “correzione del tiro” in corso d’opera. Come si è detto sopra, la “svolta” è un evento del pensiero, è l’esperienza che esso – come pensiero e in quanto pensiero – compie per poter pervenire ad un riflettere autentico. Su questo punto, è lo stesso Heidegger a fornire – nella Lettera sull’Umanismo – un importante e prezioso avvertimento:
«Esperire in modo sufficiente e partecipare a questo pensiero diverso, che abbandona la soggettività, è reso peraltro più difficile dal fatto che con la pubblicazione di Sein und Zeit la terza sezione della prima parte, Zeit und Sein, non fu pubblicata. Qui il tutto si capovolge. La sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica. […] Questa svolta non è un cambiamento del punto di vista di Sein und Zeit, ma in essa il pensiero, che là veniva tentato, raggiunge per la prima volta il luogo della dimensione a partire dalla quale era stata fatta l’esperienza di Sein und Zeit, come esperienza fondamentale dell’oblio dell’essere»[6].
Nel 1947, a distanza di anni, Heidegger riflette dunque sul suo itinerario di pensiero e avverte che la “svolta” non è una semplice deviazione, non è quel “cambiamento del punto di vista” che consentirebbe di portare a termine il progetto del 1927. È qualcosa di ben diverso. La svolta del pensiero è l’«esperienza fondamentale dell’oblio dell’essere». Sein und Zeit è un’opera che ha la sua patria nell’oblio dell’essere[7] e quello che una tale opera non sapeva era proprio di abitare nell’oblio dell’essere. Perché non lo sapeva? Perché in Sein und Zeit si voleva (certo) giungere all’essere, all’ontologia fondamentale, ma lo si voleva fare a partire dall’esserci, dall’uomo. Sein und Zeit – dunque – nasce sì dall’esperienza fondamentale dell’oblio dell’essere, ma non è in grado di pensare il mistero di una tale esperienza. Il problema riguarda, pertanto, sia il pensiero – ancora antropocentrico/rappresentativo nel caso di Sein und Zeit e quindi incapace di riflettere sulla propria svolta – sia la mancanza degli strumenti linguistici adeguati ad esprimere una tale svolta del pensiero. La conseguenza che si può trarre da tutto ciò non può stupire, come non può stupire il fatto che – con estrema chiarezza – sia lo stesso Heidegger a trarla:
«Se si intende il “progetto” menzionato in Sein und Zeit come un porre di tipo rappresentativo, allora lo si considera come un’operazione della soggettività»[8].
Ma che valore ha tutto ciò? Significa che «il porre di tipo rappresentativo», tipico non solo di Sein und Zeit, ma di tutta la storia del pensiero occidentale – un “porre” che inserisce l’opera del 1927 in tale storia –, impedirebbe, come noto, di sperimentare appieno l’oblio dell’essere e la sua verità poiché l’attenzione da sempre va all’ente, e non all’essere[9]. Del resto, è proprio questo che Heidegger ha in mente quando afferma che questo «porre di tipo rappresentativo» è «un’operazione della soggettività»: il soggetto è colui il quale pone innanzi a sé un oggetto [Gegen-stand], è colui il quale se lo rappresenta [vor-stellt], ponendoselo innanzi[10], ovvero pre-figurando le condizioni di possibilità di quello stesso oggetto[11].
Non essendoci, nei limiti di questo contributo, lo spazio per chiarire adeguatamente il peso della nozione di “rappresentazione” nel pensiero heideggeriano, è sufficiente accontentarsi di aver messo in luce che Sein und Zeit ha la sua patria nella metafisica, nel pensiero della soggettività. E proprio quando Heidegger riconosce ciò (ovvero che si tratta di un’opera che ha il suo luogo nella dimensione in cui domina l’oblio dell’essere e in cui non può rilucere lo s-velamento, vale a dire la verità dell’essere), solo allora per il filosofo il pensiero può dire in modo adeguato la sua “svolta”, la svolta del pensiero. Sein und Zeit non è, però, un errore che si sarebbe potuto evitare: per il pensiero è infatti necessario fare l’esperienza di un tale oblio dell’essere e della sua verità per poterlo superare e dirigersi verso lo svelamento, verso l’essere e verso la sua verità. Ecco spiegato perché tale “svolta” è necessaria per un’autentica riflessione sull’essere.
A questo punto, “quale che sia la valutazione del momento di rottura al suo interno, un approfondimento dell’itinerario filosofico di Heidegger rende […] insostenibile la tesi di due fasi eterogenee di pensiero, appunto perché il capovolgimento di prospettiva è presentato da Heidegger […] come necessario per insistere sulla stessa domanda, e dunque richiesto dalla stessa questione che ha dischiuso la ricerca approdata in Essere e Tempo”[12].
Queste precisazioni, che potrebbero addirittura essere considerate banali, sono necessarie non solo per chiarire il punto di vista di questo contributo, ma anche, se non soprattutto, per prendere le distanze da quelle interpretazioni che, troppo rigidamente, classificano la riflessione heideggeriana entro compartimenti stagni, scindendo il “primo” dal “secondo” Heidegger (quasi fosse un pensatore sistematico) e dimenticandosi (troppo facilmente) quanto egli abbia insistito sulla “viaticità” del pensiero, sul suo essere continuamente “in cammino” per “sentieri interrotti”, sul suo orientarsi su semplici “segnavia”, e sul fatto che
«con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nel campo»[13].
Fatta questa doverosa premessa, non è certo il caso di dilungarsi qui ulteriormente sul significato complessivo della Kehre entro la riflessione di Martin Heidegger[14] né, tanto meno, sul luogo esatto in cui tale svolta ha luogo entro la sua opera. Infatti, dovrebbe essere chiaro che non esiste, nei testi di Heidegger, un punto preciso in cui avviene la “svolta” del pensiero: la svolta semmai è un evento. Essa accade, ogni qual volta il pensiero fa esperienza dell’originario oblio dell’essere, in quanto svolta da un pensare di tipo soggettivo-rappresentativo-calcolante verso un
«pensiero diverso, che abbandona la soggettività»[15]
e che, proprio per questo, può essere pensiero dell’essere.
Più che cercare di delineare un significato complessivo della Kehre, pare dunque più utile e proficuo soffermarsi su alcune questioni specifiche, vale a dire su alcuni dei motivi che emergono nella riflessione successiva a Sein und Zeit e che hanno a che fare con quanto si è messo in luce sopra[16]. In particolare, la conquista teoretica della Kehre heideggeriana, il suo guadagno più grande (se si vuole), sta – quasi certamente – nella possibilità (o nella capacità) – per il pensiero – di intendere ora l’essere come evento e non come ente, e di pensare così la differenza (ontologica) tra i due.
Che il pensiero occidentale abbia pensato l’ente credendo di pensare l’essere è, fra le analisi heideggeriane, una delle più note e non pare questo il luogo per discuterla criticamente. Entro il presente discorso, è però importante capire che cosa ciò significhi, perché del resto è proprio
«nell’orizzonte di quel rappresentare che ci induce a pensare l’essere dell’ente come presenza (Anwesen)»[17]
che si svolge la storia del pensiero occidentale. Ora, che il rappresentare induca a pensare l’essere dell’ente come semplice presenza significa che l’essere si riduce a proprietà di ciò che è, in quanto è presente. E ciò che è, in quanto è presente, è appunto l’ente. Tutti i tentativi di pensare l’essere si sono mantenuti entro questo orizzonte, hanno cercato di pensare l’essere sempre a partire dall’ente o da quello che fra gli enti sembrava essere il più degno[18]. Come noto, con una parola Heidegger chiama tutto ciò (semplicemente) “metafisica”. Allora, volendo essere più precisi, ciò che caratterizza l’accadere della metafisica è il presentarsi dell’ente in un certo modo, con un certo suo “essere”, all’uomo che lo comprende esclusivamente come essere dell’ente. L’uomo, nel comprendere ciò che gli enti sono nel loro “essere”, non rimane tuttavia sul piano degli enti ma sempre lo “trascende”, e siffatto trascendimento (che riposa quindi nell’uomo medesimo, nella sua stessa essenza) è per Heidegger l’origine stessa della “metafisica”. La metafisica è dunque il modo fondamentale dell’uomo occidentale di comprendere l’essere dell’ente[19]. Ma questo non è sufficiente: per Heidegger, di volta in volta,
«è infatti tendenzialmente dimenticata l’originaria apertura del presentarsi»[20],
ovvero è dimenticata la differenza ontologica fra essere ed ente, quell’apertura che fa sì che l’ente possa anzitutto essere[21]. Per dire ciò Heidegger ricorre ad un’espressione ormai celebre: oblio dell’essere. L’oblio dell’essere significa che l’essere si nasconde, che rimane in un ritrarsi velato che lo sottrae (sempre) al pensiero dell’uomo, ma che è anche, ed allo stesso tempo, un sottrarsi protettivo, l’attesa di un autentico disvelamento[22].
Se – come si è visto – la metafisica non conosce che la trascendenza, cioè il pensiero dell’ente, poiché pensa l’essere sempre come altro dall’ente, allora (e proprio per questo motivo) non solo alla metafisica è precluso di accedere all’essere in quanto pensato come distinto, come altro dall’ente, ma anche di fare la prova della propria essenza (poiché ha già da sempre a che fare con l’originario ed essenziale obliarsi dell’essere). Come dovrebbe risultare chiaro, l’oblio dell’essere non costituisce dunque qualcosa di estrinseco all’essere stesso; bensì, al contrario, è il suo stesso destino, è la sua storia. L’essere accade – storicamente – come oblio. Accertato questo, si tratta ora di addentrarsi nella questione consapevoli che la
«dimenticanza dell’essere»
non dipende dalla
«smemoratezza di un professore di filosofia»,
ma
«fa parte della cosa stessa dell’essere, domina come destino della sua essenza»[23].
Detto in altre parole, la metafisica non è dunque la storia di un errore e l’essere non si oblia perché qualcuno si è dimenticato di esso. Anzi:
«È lecito presumere che questo destino non riposi su una semplice negligenza del pensiero umano, e ancora meno su una minore capacità del pensiero occidentale ai suoi inizi»[24].
Se le cose stanno così, il destino dell’essere è proprio la metafisica. E un tale destino non dipende ovviamente dall’uomo, ma dall’essere stesso: è il modo in cui l’essere si è disvelato nel corso della storia del pensiero occidentale, obliando sé stesso a favore dell’ente[25]. Lasciando essere l’ente, l’essere dunque si salva. Come? Celandosi. L’essere, ovvero, si ritrae nella s-velatezza dell’ente, che è il nascondiglio, la velatezza dell’essere: fa essere l’ente (e lo fa) per salvarsi come essere. Obliandosi, l’essere si salva. La storia di questo oblio è la storia della metafisica.
Heidegger può pervenire a questa conclusione solo a patto di prendere le distanze proprio da quella tradizione che, avendo pensato l’essere come ente, non è in grado di pensarlo come evento, come accadimento e di fare così esperienza del suo obliarsi. Così fissato e stabilizzato dal “porre di tipo rappresentativo”, sradicato dalla sua essenza eventuale, l’essere si rende disponibile a ogni tipo di calcolo e manipolazione. Incapace di fare esperienza dell’oblio dell’essere e della sua differenza dall’ente, domandando dell’essere, la metafisica continuamente
«domanda che ne è di ciò che è tutt’altro rispetto a ogni ente, che ne è di ciò che ente non è»[26].
Obliatosi, l’essere è, per la metafisica, solo ciò che è altro dall’ente, il ni-ente[27].
Come uscire da questo circolo? Come prendere le distanze da quella tradizione, la metafisica, che, come destino dell’essere, domina la storia del pensiero occidentale e che, anzi, si identifica con quella storia?
«È vero che la metafisica rappresenta l’ente nel suo essere, e pensa così anche l’essere dell’ente. Ma essa non pensa l’essere come tale, non pensa la differenza tra l’essere e l’ente. La metafisica non si interroga sulla verità dell’essere stesso […]. Non solo la metafisica non ha ancora posto finora questo problema, ma questo problema è inaccessibile alla metafisica in quanto metafisica. L’essere attende ancora di divenire esso stesso degno per l’uomo di essere pensato»[28].
Detto in altri termini: il progetto di Sein und Zeit era fallito proprio per questo motivo, vale a dire perché l’ontologia fondamentale che Heidegger voleva lì proporre avrebbe dovuto prendere le mosse dall’esserci (dalla soggettività), segnando così però di fatto la propria incapacità di pensare l’essere e la sua verità. Se, dunque, non è a partire dall’esserci – e nemmeno da qualsiasi altro ente più o meno determinato – che può prendere le mosse una riflessione autentica sull’essere e sulla sua verità, come si configura allora quella “svolta” del pensiero che consente di fare esperienza dell’oblio dell’essere e quindi di pensare l’essere come essere (e non come l’altro dall’ente), ovvero nella sua verità?[29] Per Heidegger questo è possibile solo se si è disposti a pensare ciò che la metafisica non ha pensato: la differenza fra l’essere e l’ente[30]. In questo modo,
«tentando di pensare a fondo la differenza in quanto tale non la facciamo scomparire, bensì la seguiamo nella sua provenienza essenziale. […] È la cosa del pensiero, pensata ora […] in modo più aderente alla cosa stessa: l’essere pensato a partire dalla differenza»[31].
Tale differenza, in quanto non pensata, rivela inoltre ciò che è ancora da pensare, vale a dire la dimenticanza della stessa differenza:
«Non si tratta qui di un problema che ci è stato tramandato, ed è già stato posto, bensì di ciò che lungo tutta la storia del pensiero è rimasto ovunque inindagato. Provvisoriamente noi non possiamo nominarlo che utilizzando il linguaggio della tradizione, e parliamo così della differenza (Differenz) tra l’essere e l’ente. Il passo indietro va dal non-pensato, cioè la differenza in quanto tale, a ciò che è da-pensare, cioè la dimenticanza (Vergessenheit) della differenza. La dimenticanza che qui è da pensare è l’occultamento (Verhüllung), della differenza in quanto tale»[32].
Se si è disposti a concedere ad Heidegger questa mossa, se si è cioè disposti ad accettare che il pensiero non è all’ente che deve andare, ma all’essere e al suo differire dall’ente e se si accetta anche che l’essere non è cosa ma evento (Ereignis), che non è un fatto[33] ma un apparire, un sopraggiungere, che il suo spessore ontologico è quello della “manifestazione” o “rivelazione”, allora si dischiude la possibilità di un superamento della metafisica (Verwindung)[34], di una comprensione della sua essenza e di un Altro Inizio del pensiero:
«il pensiero indietreggia (tritt zurück) rispetto alla sua cosa – l’essere -, portando così il pensato in uno stare di fronte (ein Gegenüber) che ci consente di scorgere la storia del pensiero nel suo insieme e di coglierne la sorgente, in quanto è proprio tale sorgente che prepara al pensiero la regione del suo soggiorno»[35].
È proprio questo indietreggiare del pensiero a rendere possibile il superamento della metafisica, di quella metafisica nella quale, da Platone a Nietzsche, l’essere si è obliato per mettersi in salvo[36]. Rispetto alla struttura onto-teo-logica della metafisica, “il pensiero deve ‘arretrare’, in due sensi. Da un lato, come il pittore rispetto al quadro che sta dipingendo, per vedere meglio ciò che nella storia della metafisica è rimasto impensato e inindagato: la differenza tra essere ed ente. Dall’altro per staccarsi, anche qui, dall’idea metafisica che l’essere non possa essere concepito se non come il fondamento stabile (la causa prima) dell’ente”[37]. Ora, nell’epoca del dominio tecnico del mondo, quando l’essere e l’uomo si fronteggiano nella modalità del Gestell[38], l’indietreggiare diviene dunque un evento di salvezza non solo per il pensiero, ma anche per l’essere – ormai obliatosi al punto che la metafisica ha addirittura dimenticato il suo oblio! – e per l’uomo che ha da corrispondergli.
Ma è un indietreggiare verso dove?
Nella conferenza su La cosa[39] del 1949, è Heidegger stesso ad indicare l’ambito verso cui il “saltare via” dal mondo tecnico e dal “principio di identità” metafisico[40] conduce: un ambito in cui la costellazione simbolica di cielo, terra, divini e mortali (das Geviert[41]), consentirebbe all’uomo – come semplice mortale, non come subjectum[42] – di abitare nella vicinanza delle cose, presso il loro accadere entro l’eventualità dell’essere stesso. “Il suo compito sarebbe allora quello – in sé poetico – di preservare l’identità essenziale, non logico-metafisica, delle cose, lasciando cioè che esse, nel loro «coseggiare» privo di fondamento, siano le cose che sono”[43]. Il destino poetico che la Kehre sola – come esperienza di passo indietro del pensiero – rende possibile, il destino (poetico) dell’uomo che si schiude dalla comprensione di quel mistero che è l’essere inteso come evento, questo destino consiste, dunque, nel lasciare che le cose siano, che siano semplicemente cose, che “coseggino”, senza volerle rappresentare [vor-stellen] come oggetti [Gegen-stände] innanzi ad un soggetto, che le fa essere le cose che egli – come soggetto – impone che siano[44]. Altrove Heidegger dirà che lasciare che le cose “coseggino” significa abbandonarsi ad esse[45]:
«l’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero […] ci offrono la possibilità di soggiornare nel mondo in un modo completamente diverso, ci promettono un nuovo fondamento, un nuovo terreno su cui poterci stabilire, su cui poter sostare senza pericolo all’interno del mondo della tecnica. L’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero ci permettono di intravedere la possibilità di un nuovo modo di radicarsi dell’uomo nel proprio terreno»[46].
Sul mistero dell’essere e sull’evento delle cose in quanto cose, Heidegger invita dunque a vigilare compiendo un «passo indietro» (Schritt zurück)[47]. Ma verso dove? Verso qualcosa di semplice, verso ciò che la metafisica non ha pensato – la sua provenienza essenziale, la sua sorgente – e che, tuttavia, per la metafisica è quanto di più difficile vi sia da pensare:
«poiché in questo pensiero c’è da pensare qualcosa di semplice, esso riesce difficile a quel modo di rappresentarsi le cose tramandato col nome di filosofia. Il difficile […] si nasconde nel passo-indietro (Schritt-zurück) che introduce il pensiero in un domandare capace di esperire, e che lascia cadere l’opinare abituale della filosofia»[48].
Il passo indietro, lo Schritt zurück, l’arretramento verso la provenienza essenziale della metafisica – oltre la metafisica e quindi superando la metafisica (Verwindung) – è però (e proprio per questo) un “salto” (Satz) che, “saltando via dalla metafisica del fondamento, si stacca dal Gestell e dal dominio tecnico del mondo per lanciarsi nell’abisso (Abgrund) eventuale in cui uomo, pensiero ed essere, originariamente, coappartengono in un vicendevole affidamento”[49]. Ed è un “salto” – e non un semplice passaggio o transito – perché solo lasciando cadere la costellazione di senso della metafisica è possibile comprenderla come destino dell’essere e quindi come sua storia (e non come semplice storia di un errore).
La Kehre, la svolta del pensiero – e con essa l’esperienza dell’oblio dell’essere, del passo indietro, dell’abbandono alle cose e l’apertura al mistero stesso dell’essere – costituisce così le premesse per quell’Altro Inizio [der andere Anfang] del pensiero che si configura come vera e propria risposta all’appello, che l’essere già da sempre lancia all’uomo, in attesa che egli sia in grado di corrispondergli. “Il Denkenheideggeriano che corrisponde alla chiamata dell’Essere senza ricorrere all’essente o al fondamento, deve dunque spogliarsi di sé come soggetto, deve rinunciare alla propria volontà di conoscere e di sapere, deve abbandonare la luciferina tentazione di asservire a sé il linguaggio, riconoscere e rispettare il mistero che filtra attraverso le cose e dalle cose, accogliere in sé il silenzio per disporsi all’ascolto della parola, deve lasciar cadere infine la propria determinazione metafisica di animal rationale e diventare mortale”[50].
Nel rispondere alla chiamata dell’essere, ciò che conta è
«die Gelassenheit zu den Dingen und die Offenheit für das Geheimnis»[51].
Questo è ciò che caratterizza, nei suoi termini essenziali, il pensiero meditante nel suo divergere – un divergere ‘proibito’ dalla metafisica e dalla scienza – dal pensiero calcolante. In questo senso, l’esperienza del pensiero che Heidegger ha delineato come via d’accesso all’Essere – e che è possibile dopo la svolta del pensiero stesso – è esperienza della Gelassenheit:
«Tale esperienza […] sopraggiunge per un turbamento e un coinvolgimento profondi dell’esserci che si manifestano in stati d’animo fondamentali, ontologicamente rivelativi, la cui peculiarità sta nell’emergere senza preavviso, “quando meno uno se lo aspetta”»[52].
È dunque un’esperienza che richiede il massimo impegno e la massima passione da parte di chi vuole (ancora) pensare e che non è, dunque, nulla di casuale, poiché
«l’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero non accadono mai senza il nostro consenso (fallen uns niemals von selber zu), non sono affatto degli accadimenti casuali (nichts Zu-fälliges). Entrambi scaturiscono soltanto da un pensiero incessante e appassionato (herzhaft)»[53].
Solo così infatti
«potremo raggiungere quella via che conduce ad un nuovo fondamento, ad un nuovo terreno»[54].
La Gelassenheit è, pertanto, il vero e proprio compimento della Kehre intrapresa dal pensiero heideggeriano a partire da quel ‘fallimento necessario’ di Sein und Zeit. Essa è ciò che consente la massima corrispondenza dell’uomo all’essere, conducendo il mortale sulle tracce dell’essere. In questo senso, Gelassenheit è il cammino che porta la più universale delle forme del sapere prodotte dall’uomo, la filosofia, ad abbandonare la propria demoniaca volontà di dominio della realtà, per porsi sulle soglie della differenza – ciò che la metafisica non è stata in grado di pensare –, al di là della quale si apre la contrada non mortale dell’essere.
Se però la più universale delle forme del sapere prodotte dall’uomo, la filosofia, deve lasciar cadere tutto quello che – come metafisica – ha costruito nel corso dei secoli, quale spazio (ancora) le rimane? Chiedendo ciò, si pone la questione che qualsiasi interpretazione o giudizio sul pensiero di Heidegger non può eludere. Il problema a questo punto non è più ‘Was ist Metaphysik?’ per Martin Heidegger, ma diviene, parafrasando il titolo di quella famosa Prolusione, ‘Was ist Philosophie?’.
Come noto, egli troverà nell’arte poetica la via privilegiata per l’accesso alla verità, intesa come a-letheia, come disvelamento dell’essere, come esperienza dell’originario. Ed è noto anche il fatto che Heidegger individuerà proprio nel linguaggio poetico il luogo in cui accade l’evento dell’essere, il luogo in cui l’essere può reclamare dall’uomo un’adeguata cor-rispondenza. Ciò però non fa che complicare il problema. È possibile uscire dall’orizzonte della storia dell’essere, dall’orizzonte di quella che Heidegger chiama metafisica, continuando a fare filosofia? È filosofia quella di Heidegger? Se la Verwindung è superamento della metafisica, dove conduce un tale superamento?
Chi concepisce la filosofia come quel pensiero che – secondo la terminologia dello stesso Heidegger –, a partire dall’essere in quanto fondamento (logos), ovunque sonda e fonda l’ente come tale nella sua totalità[55], non potrà che bollare il tentativo heideggeriano come un semplice ‘balbettio’. Chi mantiene la propria patria all’interno della metafisica non è infatti disposto ad ammettere che, dopo la Verwindung, sia ancora possibile quel tipo di sapere che si chiama filosofia. Ma chi, al contrario, è disposto a concedere una possibilità all’intuizione heideggeriana, chi accetta di farsi coinvolgere in questa avventura svoltante del pensiero, chi è disposto a rischiare il naufragio pur di fare l’esperienza dell’originario, è altresì disposto ad accogliere questa come la via (forse l’unica) che l’uomo contemporaneo può percorrere se vuole ancora davvero pensare nell’“era atomica”[56].
Basta questo per dire che si è salvata la “filosofia”? Assolutamente no! È lo stesso Heidegger – anzi – ad ammettere che
«è tempo di disabituarsi a sopravvalutare la filosofia e quindi a chiederle troppo. Nell’attuale situazione di necessità del mondo è necessaria meno filosofia e più attenzione al pensiero, meno letteratura e più cura della lettera delle parole»[57].
Meno filosofia e più pensiero. Ma cos’è questo pensiero? È il pensiero che si abbandona alle cose e si apre al mistero, è cioè il pensiero dell’essere come differenza e come evento, ovvero pensiero della verità dell’essere. Ma se tale pensare si apre nello spazio dischiuso dalla costellazione simbolica di cielo, terra, divini e mortali, se cioè un tale pensiero dice poeticamente il Geviert, abitando nella vicinanza delle cose, è evidente che, seppur poeticamente, questo pensiero dice qualcosa di filosofico: dicendo il Geviert, il pensiero poetante dice (anche) qualcosa di filosofico. Insomma, anche se attraverso il linguaggio poetico, ciò che avviene è, comunque, il recupero della filosofia, della filosofia autentica. La parola poetica è per Heidegger pura, iniziante, ha il carattere del chiamare e del nominare, invita le cose alla presenza, le fa “coseggiare”. La parola è lo spazio, l’orizzonte entro cui ciò che è chiamato viene all’essere. Il chiamare è un invitare (ein-laden) le cose ad essere se stesse. In questo senso, la parola svolge una funzione ‘aletheologica’ che assolve al disoccultamento di ciò che è velato[58]. Ed ecco perché il linguaggio è – come ricorda Heidegger nella Lettera sull’Umanismo –
«avvento (Ankunft) diradante-velante dell’essere stesso»[59].
La parola svela l’essere. Il linguaggio permette che una cosa sia assente o presente. Il linguaggio è ciò che fa essere qualcosa quello che prima non era (la fa appunto venire all’essere), non identificandosi con nessuna delle cose che nomina[60].
Se le cose stanno così, se cioè la poesia è – e per Heidegger lo è davvero – uno degli ambiti privilegiati per l’accesso alla verità e all’essere come evento e se, proprio tramite la poesia, il pensiero può (ancora) dire qualcosa di filosofico[61], si impone una riflessione su quali possano essere le effettive possibilità di un simile “pensiero poetante” dopo la “svolta del pensiero”. È infatti qualcosa di assolutamente contestabile il fatto che – per “fare filosofia” (come cosa “seria”) – l’accesso privilegiato alla verità sia dato dalla poesia. E questo è – in effetti – quello che da più direzioni è stato rimproverato ad Heidegger[62]. Del resto, chi non condivide (o non riesce a capire) l’esito del percorso heideggeriano, difficilmente riesce a fare a meno di chiedersi se la filosofia, alla fine, non si identifichi con la poesia. E chi pone tale domanda, talvolta, è anche propenso a concludere (frettolosamente) che, se così fosse, allora sarebbero solo i poeti – e non quelli che sono chiamati filosofi – a dire qualcosa di significativo.
Un’attenta lettura dei testi mostra quanto sia ovvio che, per Heidegger, le cose non stanno assolutamente così, in quanto il ‘dire del pensatore’ e il ‘nominare del poeta’ – provenienti dalla stessa fonte ovvero dal “silenzio originario” – sono vicini e simili, e tuttavia separati da una distanza originaria grandissima:
«Dal silenzio senza parole a lungo custodito, e dall’accurata chiarificazione dell’ambito in essa diradato, viene il dire del pensatore. Dalla stessa fonte proviene il nominare del poeta. Ma poiché il simile è simile solo in quanto è distinto, e il poetare e il pensare si somigliano nel modo più puro nella cura della parola, essi sono ad un tempo separati nella loro essenza dalla massima distanza»[63].
Pensiero e poesia: si tratta di due forme simili; tuttavia Heidegger avverte che il simile è tale proprio perché anzitutto distinto, differente. Sia il pensatore che il poeta hanno cura della parola, eppure nella loro essenza sono separati da una distanza grandissima. In che cosa differiscono? Dove sta la loro separatezza?
«Il pensatore dice l’essere, il poeta nomina il sacro»[64].
È sufficiente ciò per capire in cosa la poesia differisca dal pensiero? No. E, in questo senso, è Heidegger stesso a lanciare un avvertimento:
«come poi, pensati partendo dall’essenza dell’essere, il poetare, il ringraziare e il pensare si richiamino l’un l’altro e siano insieme divisi, rimane qui una questione aperta. […] Si conosce senz’altro qualcosa sul rapporto tra la filosofia e la poesia, ma non sappiamo niente del dialogo tra il poeta e il pensatore che ‘abitano vicini su monti separati’»[65].
Non è possibile definire né cos’è poesia né cos’è filosofia[66]. Non è possibile definire, in ultima analisi, qual è la loro forma. Riflettere su queste due forme è possibile solo come intreccio tra esse e quindi come collocazione all’interno del dire originario, dal quale entrambe sorgono e di cui entrambe fruiscono.
Si torna così al punto di partenza del discorso: che fine fa la filosofia dopo la svolta del pensiero? C’è ancora spazio per quel sapere chiamato filosofia? Leggendo quanto segue, parrebbe di no:
«Il pensiero a venire non è più filosofia, perché esso pensa in modo più originario della metafisica, termine che indica la stessa identica cosa»[67].
Dopo la svolta del pensiero non vi è filosofia – nella forma tradizionale, cioè nella forma della metafisica – ma un pensiero diverso, il pensiero dell’essere. Se tale pensiero – lo si è visto precedentemente – non è identificabile con la poesia, che cos’è? È pensiero rammemorante. E che cos’è un tale pensiero rammemorante? È filosofia. Attenzione però: si tratta di filosofia in un modo del tutto diverso rispetto a quella filosofia che Heidegger identifica con la storia dell’oblio dell’essere, vale a dire con la metafisica. La filosofia, quella che fa il “passo indietro”, ricordandosi (di) e pensando (a) quanto è rimasto impensato dalla metafisica, per Heidegger non può che essere pensiero rammemorante (Andenken), cioè quel pensiero che
«preesiste, come l’essere, alla nostra iniziativa autonoma, fiorisce quando avremo avuto il coraggio di liberarci dai concetti e dalle entità costruite con gli strumenti classici della filosofia»[68].
Un tale pensiero, figlio di un naufragio, figlio della sua stessa svolta, lascia con coraggio cadere tutto l’armamentario della filosofia per ri-pensare a partire da un Altro Inizio, avendo fatto un passo indietro. Per guadagnare cosa? La verità! Il dono della verità è ciò che a un tale pensiero è concesso dall’essere:
«c’è un abisso tra il ‘filosofare’ sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga. Non sarebbe un male se mai un pensiero del genere riuscisse a un uomo. Gli sarebbe fatto l’unico dono che possa venire al pensiero da parte dell’essere»[69].
Il pensiero tradizionale, quello calcolante, deve dunque naufragare, perché solo così può ricominciare la propria avventura. La filosofia deve naufragare come metafisica e ricominciare il proprio cammino come pensiero dell’essere. Solo allora la svolta sarà compiuta e
«la filosofia, da compito esclusivo del filosofo di professione, funzionario dell’umanità incaricato dell’essere, diventa un affare di tutti e di nessuno: di tutti, perché chiunque ne può essere toccato, e di nessuno, perché nessuno è di per sé filosofo, ma lo diventa subendo la conversione che lo porta a interrogarsi sull’ente, trascendendone l’immediatezza e cercandone il modo d’essere. […] Insomma, la filosofia non è una semplice scelta professionale (Beruf), ma una conversione e una vocazione (Berufung)»[70].
Lungi da decretarne il tramonto definitivo, raccontandone invece la rinascita, Heidegger riserva alla filosofia, al pensiero (quello vero!) il più arduo di tutti i compiti, quello di accompagnare l’uomo nel suo destino, che è quello di esistere come custode della verità dell’essere.
Alla filosofia di Martin Heidegger non è concessa possibilità alcuna di essere compresa entro le maglie del pensiero rappresentativo. La metafisica della soggettività, incapace di esperire su di sé la svolta del pensiero, continuerà a etichettare il suo pensiero come un balbettio, come un dire che non dice nulla. Un simile pensiero richiede una conversione (un atto di ‘fede’ forse), poiché, come ogni conversione, non è spiegabile nei termini del pensiero logico-razionale. E allora chi accetta questa conversione, chi è disposto a sopportare questa Kehre del pensiero, chi insomma sa ascoltare l’appello che giunge da lontano, sa anche che dietro ai versi del pensatore-poeta si cela il mistero di tutta la nostra esistenza:
Das Älteste des Alten kommt in unserem Denken
hinter uns her und doch auf uns zu.
Darum hält sich das Denken an die Ankunft des Gewesenen
und ist Andenken.
Alt sein heißt: rechtzeitig innehalten, wo der
einzige Gedanke eines Denkweges in sein Gefüge
eingeschwungen ist.
Den Schritt zurück aus der Philosophie in das Denken
des Seyns dürfen wir wagen, sobald wir in der Herkunft
des Denkens heimisch geworden sind[71].
Ciò che è più antico tra le cose antiche
insegue il nostro pensare
e tuttavia ci viene incontro.
Perciò il pensiero si attiene all’evento di ciò che è stato,
ed è esso ricor
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